Come dei ragazzi di quarta ginnasio possono appassionarsi alla scrittura? Facile, scrivendo. Ed è proprio così che noi abbiamo iniziato il nostro percorso di antologia.
Innanzitutto abbiamo comprato un quaderno a preferenza, grande o piccolo era uguale, poi abbiamo decorato la copertina con la scritta “Gutta cavat lapidem”, titolo anche di questa pagina. Infine abbiamo iniziato a scrivere dei testi su vari argomenti. Uno di questi sono le fotografie di Robert Doisneau: ognuno ha scelto una di esse e ha inventato una storia interpretando la scena raffigurata, immedesimandosi nel protagonista della foto o nel fotografo.
Insomma per diventare scrittori il vero segreto è scrivere, scrivere e di nuovo scrivere. In fondo tutti sanno leggere, ma pochi sanno scrivere; noi ci abbiamo provato.
Nella pagina del laboratorio di scrittura del nostro blog vogliamo illustrare e far rivivere ai nostri lettori, tramite racconti scritti da noi, le nostre esperienze più significative.
CHI È ROBERT DOISNEAU?
“Quello che cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo poteva esistere."
Queste sono le parole di Robert Doisneau, fotografo francese nato a Gentilly un sobborgo di Parigi, nel 1912.
All'inizio della sua carriera egli stesso si definiva un "fotografo timido", infatti non si avvicinava al soggetto da fotografare; solamente quando un gruppo di soldati della resistenza gli chiese di scattargli una foto, egli comprese l'importanza di immortalare le persone da vicino. Dopo quell'episodio prese il coraggio di chiedere addirittura alle persone di recitare un scena da fotografare, come succede con la famosa foto de "Il bacio".
Doisneau ebbe stretti rapporti di amicizia anche con il pittore Picasso; in una sua visita al celebre artista gli scattò una foto con delle grosse pagnotte, posizionate sul tavolo al posto della mani! La foto si intitola "I pani di Picasso".
Doisneau durante la sua carriera dovette anche scattare delle foto come professionista, ad esempio servizi per la moda, ma dalle sue immagini traspare sempre la volontà di comunicare a chi guarda ciò che il suo occhio vede. cronache di vita scolastica
“Quello che cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo poteva esistere."
Queste sono le parole di Robert Doisneau, fotografo francese nato a Gentilly un sobborgo di Parigi, nel 1912.
All'inizio della sua carriera egli stesso si definiva un "fotografo timido", infatti non si avvicinava al soggetto da fotografare; solamente quando un gruppo di soldati della resistenza gli chiese di scattargli una foto, egli comprese l'importanza di immortalare le persone da vicino. Dopo quell'episodio prese il coraggio di chiedere addirittura alle persone di recitare un scena da fotografare, come succede con la famosa foto de "Il bacio".
Doisneau ebbe stretti rapporti di amicizia anche con il pittore Picasso; in una sua visita al celebre artista gli scattò una foto con delle grosse pagnotte, posizionate sul tavolo al posto della mani! La foto si intitola "I pani di Picasso".
Doisneau durante la sua carriera dovette anche scattare delle foto come professionista, ad esempio servizi per la moda, ma dalle sue immagini traspare sempre la volontà di comunicare a chi guarda ciò che il suo occhio vede. cronache di vita scolastica
LES PETIT ENFANTS AU LAIT Era giovedì, e come tutti i giovedì le piccole sorelle Lambert venivano a prendere il latte nel mio negozio. I loro genitori le mandavano da me una volta a settimana ed esse puntualmente entravano nella latteria a braccetto con passetti veloci. Genevieve, che aveva cinque anni, teneva in una mano il secchiello del latte e con l'altra la manina alla minore, Amelie, che a e ha compiuto da poco il secondo anno di vita. Una volta la piccola era inciampata nel recipiente che la sorella portava, e io avevo dovuto riempire nuovamente il secchio. Nonostante i guai che ogni tanto causavano, non mi potevo lamentare. Quelle due bimbe piccine portavano gioia nel mio negozio, illuminandolo con le loro ingenue risate e i sorrisetti timidi. Per me, che non avevo potuto avere figli, quelle due bambinette erano state una benedizione. Sin da quando erano entrate per la prima volta nella mia latteria sapevo già che mi sarei affezionata a loro, e avevo ragione. Quelle due bimbe erano diventate le figlie che non avevo mai avuto. Anche se probabilmente, una volta cresciute,non si ricorderanno di me, io mi ricorderò sempre di loro. Mentre penso a questo eccole che varcano la soglia. |
LES TABLIERS DE RUE DE RIVOLI
Attraversano la strada come pecorelle, ridono, gridano, e bloccano la via. Ma sono belli da vedere. C’è persino chi li fotografa. Certo, sono solo bambini. Piccoli, di cinque, forse sei anni. Una piccola catena, tutti avvinghiati l’un l’altro, le mani sulle spalle. Seguono la maestra, sì, proprio come tante pecorelle, pecorelle di città, che fanno l’infelicità degli autisti frettolosi; ma per chi, come me, è solo un passante, sono uno spettacolo simpatico.
E come ridono! Come cicalano, si chiamano, sono felici per queste uscite, mano nella mano dei loro compagni, già si sentono adulti a passeggiare per Parigi. O forse no, la loro felicità è solo per la libertà, poter godersi un po’ d’aria, non dover stare chiusi nelle aule della loro scuola. Chissà cosa pensano in quelle loro testoline?.
Finalmente tutti attraversano. La maestra si volta per controllare di averli ancora tutti, che nessuno sia rimasto indietro. Per fortuna tutto a posto; del resto era solo una strada da attraversare. Infine, in una fila ordinata, ripartono. Chissà dove sono diretti. Ai giardini? A qualche parco? O forse ritornano al loro asilo? Chi lo sa!
Il traffico riprende, e quel signore con la macchina fotografica scompare.
Attraversano la strada come pecorelle, ridono, gridano, e bloccano la via. Ma sono belli da vedere. C’è persino chi li fotografa. Certo, sono solo bambini. Piccoli, di cinque, forse sei anni. Una piccola catena, tutti avvinghiati l’un l’altro, le mani sulle spalle. Seguono la maestra, sì, proprio come tante pecorelle, pecorelle di città, che fanno l’infelicità degli autisti frettolosi; ma per chi, come me, è solo un passante, sono uno spettacolo simpatico.
E come ridono! Come cicalano, si chiamano, sono felici per queste uscite, mano nella mano dei loro compagni, già si sentono adulti a passeggiare per Parigi. O forse no, la loro felicità è solo per la libertà, poter godersi un po’ d’aria, non dover stare chiusi nelle aule della loro scuola. Chissà cosa pensano in quelle loro testoline?.
Finalmente tutti attraversano. La maestra si volta per controllare di averli ancora tutti, che nessuno sia rimasto indietro. Per fortuna tutto a posto; del resto era solo una strada da attraversare. Infine, in una fila ordinata, ripartono. Chissà dove sono diretti. Ai giardini? A qualche parco? O forse ritornano al loro asilo? Chi lo sa!
Il traffico riprende, e quel signore con la macchina fotografica scompare.
ARTISTA
Sono ormai due settimane che passo di qui, e quell'uomo continua a suonare, anche in modo ineccepibile, la sua vecchia fisarmonica. Nessuno lo ascolta, sono tutti indaffarati in qualcos'altro, ma allora perché lo fa? A che scopo? Per chi suona? Nessun riconoscimento, nessuno spettatore, solo un banchiere che, ponendosi mille domande, lo ascolta in un angolo alle sue spalle. Il vecchio è completamente immerso nella sua musica e non nota assolutamente la mancanza di un pubblico per cui esprimere la propria arte; nonostante ciò il Maestro non si incupisce, non esprime tristezza con le sue dita sui tasti bianchi. Non gli importa minimamente se gli altri non lo ascoltano, lui suona per se stesso, come se una parte della sua anima, adorasse i suoi componimenti.
Egoista?
No.
ARTISTA
Ecco alcuni racconti costruiti a partire da uno spunto descrittivo di un personaggio.
UNA STORIA DI PIOMBO
Era la mattina del 16 dicembre 1974, intorno alle sette e trenta. A Torino faceva molto freddo e cadeva una pioggerellina gelida. In via Cavour, non distante dal centro, un uomo di mezz’età, basso e quasi calvo, era fermo sul bordo della strada, avvolto in un pesante cappotto. Era tranquillamente appoggiato a un palo della luce e sembrava attendere qualcuno; con la mano destra reggeva un sacchetto anonimo.
A un certo punto l’uomo si mosse, gettò il sacchetto in un bidone della spazzatura lì vicino e si allontanò, sempre con apparente calma. Dal fondo della strada si stava avvicinando un’altra persona con passo svelto: era un giovane, con folti capelli neri e un eschimo verde. Nel momento in cui egli transitò si avvertì un violento botto, poi di nuovo il silenzio.
I soccorsi arrivarono subito, ma per il giovane non ci fu nulla da fare: era stato ucciso da una violenta esplosione, che sembrava aver avuto origine proprio da quel bidone. Infatti furono ritrovati i resti di un esplosivo al tritolo, comandato a distanza.
La vittima del vile attentato era Antonio Rossi, venticinquenne operaio della FIAT. I genitori lo descrivevano come un ragazzo tranquillo, che non aveva nemici, anche se simpatizzava per la Sinistra; di Brigate rosse neanche a parlarne.
Nessun testimone, però, aveva visto il responsabile. Le indagini continuarono per anni, fino a quando vennero archiviate.
Tuttavia, il 16 dicembre 1994 accadde qualcosa di strano. Alle otto, subito dopo l’apertura degli uffici, si presentò alla Questura di Torino un uomo settantenne, basso e totalmente calvo, di nome Paolo Rossi. Egli chiese di poter parlare urgentemente col questore.
L’uomo iniziò il discorso molto vagamente, parlando degli Anni di piombo e dei movimenti di destra. Poi introdusse il delitto del 16 dicembre di vent’anni prima, confessando di essere il colpevole. Paolo Rossi era il padre della vittima e aveva frequentato alcuni movimenti di estrema destra. Un giorno gli altri militanti scoprirono che suo figlio parteggiava per sinistra e gli diedero ordine di eliminarlo. Se non l’avesse fatto i compagni avrebbero sterminato tutta la famiglia.
Rossi rifletté per una notte. Si trovava in una situazione terribile e si pentì del proprio passato. Ormai, però, era troppo tardi; quindi decise di uccidere il figlio per salvare suo fratello e la moglie.
Il questore rimase muto, paralizzato da quel racconto. Improvvisamente l’anziano di fronte a lui si alzò, raggiunse in un istante la finestra e si buttò. Aveva sopportato il peso di quel delitto così terribile per vent’anni e non ne poteva più; quindi preferì la morte.
Era la mattina del 16 dicembre 1974, intorno alle sette e trenta. A Torino faceva molto freddo e cadeva una pioggerellina gelida. In via Cavour, non distante dal centro, un uomo di mezz’età, basso e quasi calvo, era fermo sul bordo della strada, avvolto in un pesante cappotto. Era tranquillamente appoggiato a un palo della luce e sembrava attendere qualcuno; con la mano destra reggeva un sacchetto anonimo.
A un certo punto l’uomo si mosse, gettò il sacchetto in un bidone della spazzatura lì vicino e si allontanò, sempre con apparente calma. Dal fondo della strada si stava avvicinando un’altra persona con passo svelto: era un giovane, con folti capelli neri e un eschimo verde. Nel momento in cui egli transitò si avvertì un violento botto, poi di nuovo il silenzio.
I soccorsi arrivarono subito, ma per il giovane non ci fu nulla da fare: era stato ucciso da una violenta esplosione, che sembrava aver avuto origine proprio da quel bidone. Infatti furono ritrovati i resti di un esplosivo al tritolo, comandato a distanza.
La vittima del vile attentato era Antonio Rossi, venticinquenne operaio della FIAT. I genitori lo descrivevano come un ragazzo tranquillo, che non aveva nemici, anche se simpatizzava per la Sinistra; di Brigate rosse neanche a parlarne.
Nessun testimone, però, aveva visto il responsabile. Le indagini continuarono per anni, fino a quando vennero archiviate.
Tuttavia, il 16 dicembre 1994 accadde qualcosa di strano. Alle otto, subito dopo l’apertura degli uffici, si presentò alla Questura di Torino un uomo settantenne, basso e totalmente calvo, di nome Paolo Rossi. Egli chiese di poter parlare urgentemente col questore.
L’uomo iniziò il discorso molto vagamente, parlando degli Anni di piombo e dei movimenti di destra. Poi introdusse il delitto del 16 dicembre di vent’anni prima, confessando di essere il colpevole. Paolo Rossi era il padre della vittima e aveva frequentato alcuni movimenti di estrema destra. Un giorno gli altri militanti scoprirono che suo figlio parteggiava per sinistra e gli diedero ordine di eliminarlo. Se non l’avesse fatto i compagni avrebbero sterminato tutta la famiglia.
Rossi rifletté per una notte. Si trovava in una situazione terribile e si pentì del proprio passato. Ormai, però, era troppo tardi; quindi decise di uccidere il figlio per salvare suo fratello e la moglie.
Il questore rimase muto, paralizzato da quel racconto. Improvvisamente l’anziano di fronte a lui si alzò, raggiunse in un istante la finestra e si buttò. Aveva sopportato il peso di quel delitto così terribile per vent’anni e non ne poteva più; quindi preferì la morte.
LA GUERRA DI ZEBRA
Si chiamava Adam Zebrin, ma tutti nel quartiere lo chiamavano col nome di Zebra: era molto alto, mingherlino e con i capelli castano scuro tagliati corti. Era un ragazzo schietto e leggermente acido, con quel pizzico di orgoglio tipico della gioventù. Era sempre serio quando parlava, con la faccia imbronciata e non rideva mai a nessuno. A scuola era un alunno ottimo per risultati, ma pessimo per comportamento in quanto contestava spesso i discorsi degli insegnanti; loro dicevano che la guerra era fondamentale per l’ unità degli Israeliani, mentre Zebra diceva l’ opposto.
Nel giorno del suo diciannovesimo compleanno parlammo molto, mentre giravamo per il quartiere. Parola dopo parola arrivammo a quel famigerato argomento: la leva militare obbligatoria. La leva iniziava ai diciannove anni e terminava ai ventidue anni, ed era sempre stata un argomento tabù fin da bambini; ora però avevamo deciso di parlarne, facendo i conti
con ciò che ci aspettava: l’ alto tasso di mortalità dei ragazzi provenienti da Tel Aviv. Secondo molti questa situazione era legata ad una scarsa motivazione, mentre secondo altri, era una questione di equipaggiamento, in quanto i palestinesi non erano più disorganizzati, come in passato, quindi l’ esercito israeliano doveva aggiornarsi. Secondo noi invece era frutto del cambiamento: noi non volevamo più combattere.
Terminammo la conversazione lì , senza una fine, riservandoci delle vere riflessioni al nostro ritorno. Dopo due mesi io partii senza aver più visto Zebra e senza avere idea di cosa mi aspettasse. Passai i tre anni della leva facendo parte della scorta del presidente, viaggiando per il paese senza aver mai visto un solo Palestinese armato o aver dovuto sparare.
Tornai a casa il 20 Agosto 1986 che sembravo più in forma e riposato di quanto non lo fossi alla partenza. Scoprii poi per caso che Zebra sarebbe tornato il mese seguente. Passai quel tempo aspettandolo, rispondendo alle domande dei ragazzini e dei vecchi, ma appena si scopriva che non avevo sparato un solo colpo, tutti smettevano di interrogarmi e, guardandomi male, se ne andavano. Il mese finì in fretta ed io mi ritrovai alla stazione aspettando Zebra. Scesero a bizzeffe dal treno ragazzi festosi e prima che la banchina si svuotasse passarono due ore, ma del mio amico neppure l’ ombra. Fecero scendere poi i feriti, gravi e non, ma di Zebra non c’ era traccia. Fu il turno dei caduti; dopo tre ore tutte le salme furono portate via, ma anche in quel caso, Zebra non era tra quei ragazzi.
Tornai a casa sfinito, ma ancora speranzoso: mi illudevo. Infatti per tutti i giorni fino ad oggi ho aspettato il mio amico e fino ai miei ultimi giorni lo aspetterò, ma sono passati più di trenta anni, quindi ho perso la speranza di rivederlo.
Zebra è morto per una guerra che non voleva e che forse nessuno di noi ha voluto davvero.
Si chiamava Adam Zebrin, ma tutti nel quartiere lo chiamavano col nome di Zebra: era molto alto, mingherlino e con i capelli castano scuro tagliati corti. Era un ragazzo schietto e leggermente acido, con quel pizzico di orgoglio tipico della gioventù. Era sempre serio quando parlava, con la faccia imbronciata e non rideva mai a nessuno. A scuola era un alunno ottimo per risultati, ma pessimo per comportamento in quanto contestava spesso i discorsi degli insegnanti; loro dicevano che la guerra era fondamentale per l’ unità degli Israeliani, mentre Zebra diceva l’ opposto.
Nel giorno del suo diciannovesimo compleanno parlammo molto, mentre giravamo per il quartiere. Parola dopo parola arrivammo a quel famigerato argomento: la leva militare obbligatoria. La leva iniziava ai diciannove anni e terminava ai ventidue anni, ed era sempre stata un argomento tabù fin da bambini; ora però avevamo deciso di parlarne, facendo i conti
con ciò che ci aspettava: l’ alto tasso di mortalità dei ragazzi provenienti da Tel Aviv. Secondo molti questa situazione era legata ad una scarsa motivazione, mentre secondo altri, era una questione di equipaggiamento, in quanto i palestinesi non erano più disorganizzati, come in passato, quindi l’ esercito israeliano doveva aggiornarsi. Secondo noi invece era frutto del cambiamento: noi non volevamo più combattere.
Terminammo la conversazione lì , senza una fine, riservandoci delle vere riflessioni al nostro ritorno. Dopo due mesi io partii senza aver più visto Zebra e senza avere idea di cosa mi aspettasse. Passai i tre anni della leva facendo parte della scorta del presidente, viaggiando per il paese senza aver mai visto un solo Palestinese armato o aver dovuto sparare.
Tornai a casa il 20 Agosto 1986 che sembravo più in forma e riposato di quanto non lo fossi alla partenza. Scoprii poi per caso che Zebra sarebbe tornato il mese seguente. Passai quel tempo aspettandolo, rispondendo alle domande dei ragazzini e dei vecchi, ma appena si scopriva che non avevo sparato un solo colpo, tutti smettevano di interrogarmi e, guardandomi male, se ne andavano. Il mese finì in fretta ed io mi ritrovai alla stazione aspettando Zebra. Scesero a bizzeffe dal treno ragazzi festosi e prima che la banchina si svuotasse passarono due ore, ma del mio amico neppure l’ ombra. Fecero scendere poi i feriti, gravi e non, ma di Zebra non c’ era traccia. Fu il turno dei caduti; dopo tre ore tutte le salme furono portate via, ma anche in quel caso, Zebra non era tra quei ragazzi.
Tornai a casa sfinito, ma ancora speranzoso: mi illudevo. Infatti per tutti i giorni fino ad oggi ho aspettato il mio amico e fino ai miei ultimi giorni lo aspetterò, ma sono passati più di trenta anni, quindi ho perso la speranza di rivederlo.
Zebra è morto per una guerra che non voleva e che forse nessuno di noi ha voluto davvero.
AD UN PASSO DALLA SALVEZZA
Nel 1951 la Somalia era un labirinto di strade; solo un ragazzo, tra noi, conosceva ogni segreto del quartiere: si chiamava Adam Zebrin, ma tutti nel quartiere lo conoscevano con il nome di Zebra. Egli prendeva parte a tutti i nostri giochi, ma non gli piaceva chiacchierare con noi, si “relazionava” solo con me.
Zebra era un sognatore, spesso si sedeva per terra e immaginava il suo futuro: desiderava fuggire dalla Somalia, lasciarsi alle spalle la sofferenza che viveva ogni mattina svegliandosi e non trovando nessuno che gli avrebbe accarezzato il viso sporco e i capelli scuri. I genitori di Zebra lo avevano abbandonato alla nascita e, nonostante fosse stato affidato ad una famiglia, all’età di 10 anni era stato costretto a cavarsela da solo, poiché i coniugi che gli avevano regalato un po’ di affetto erano morti, uccisi dai terroristi che occupavano la città ormai da qualche anno.
Un pomeriggio il ragazzo non si presentò ai giochi, ma nessuno notò la sua assenza. Dopo due settimane, però, alcuni si accorsero che il r era scomparso,eppure la vita di ognuno andò avanti come se niente fosse; chi poteva immaginare che in quel momento Adam si trovava su un cigolante pullman diretto a nord? Fu molti mesi dopo che sapemmo dell’avventura di Zebra.
Partito una mattina presto, Zebrin si era intrufolato all’interno di un camion carico di merci da esportare e il suo viaggio era cominciato. Non sapeva nemmeno lui cosa stesse facendo, ma era consapevole del fatto che non avrebbe resistito a lungo nel suo paese, pieno di violenze e ingiustizie.
Grazie alla sua minuta corporatura riuscì a sfuggire a tutti i trafficanti che chiedevano ai migranti somme in denaro per farli proseguire e tra le violenze, la sete, la fame, le grida e la disperazione raggiunse la Libia, luogo dal quale sarebbe salpato per toccare le coste di quel mondo così diverso dal suo. Era conoscenza di molte storie che riguardavano l’Europa.
Dopo qualche settimana trascorsa in un caldissimo container, Zebra venne a sapere che un gommone avrebbe lasciato le coste della Libia quella sera e decise che si sarebbe imbarcato. Approfittando del buio e della confusione salì a bordo senza farsi notare e preso il largo tirò un sospiro di sollievo. Il viaggio durò qualche giorno: a Zebrin parvero mesi. Appena giunsero in vista della costa i migranti cominciarono ad avvertire degli scossoni, il cielo si fece scuro e grandi onde cominciarono a sballottare l’imbarcazione; in preda al panico i viaggiatori si guardarono l’un l’altro, finché l’acqua cominciò ad entrare nel gommone e con la paura negli occhi alcuni provarono a frenare il flusso che stava appesantendo l’imbarcazione. Non c’era più nulla da fare, il gommone stava per colare a picco e le speranze di Zebra erano riposte nelle navi costiere italiane; all’improvviso un’onda più grande delle altre sommerse il barcone e i viaggiatori, nonostante cercassero in tutti i modi di sopravvivere, annegarono, ad un passo dalla salvezza.
Nel 1951 la Somalia era un labirinto di strade; solo un ragazzo, tra noi, conosceva ogni segreto del quartiere: si chiamava Adam Zebrin, ma tutti nel quartiere lo conoscevano con il nome di Zebra. Egli prendeva parte a tutti i nostri giochi, ma non gli piaceva chiacchierare con noi, si “relazionava” solo con me.
Zebra era un sognatore, spesso si sedeva per terra e immaginava il suo futuro: desiderava fuggire dalla Somalia, lasciarsi alle spalle la sofferenza che viveva ogni mattina svegliandosi e non trovando nessuno che gli avrebbe accarezzato il viso sporco e i capelli scuri. I genitori di Zebra lo avevano abbandonato alla nascita e, nonostante fosse stato affidato ad una famiglia, all’età di 10 anni era stato costretto a cavarsela da solo, poiché i coniugi che gli avevano regalato un po’ di affetto erano morti, uccisi dai terroristi che occupavano la città ormai da qualche anno.
Un pomeriggio il ragazzo non si presentò ai giochi, ma nessuno notò la sua assenza. Dopo due settimane, però, alcuni si accorsero che il r era scomparso,eppure la vita di ognuno andò avanti come se niente fosse; chi poteva immaginare che in quel momento Adam si trovava su un cigolante pullman diretto a nord? Fu molti mesi dopo che sapemmo dell’avventura di Zebra.
Partito una mattina presto, Zebrin si era intrufolato all’interno di un camion carico di merci da esportare e il suo viaggio era cominciato. Non sapeva nemmeno lui cosa stesse facendo, ma era consapevole del fatto che non avrebbe resistito a lungo nel suo paese, pieno di violenze e ingiustizie.
Grazie alla sua minuta corporatura riuscì a sfuggire a tutti i trafficanti che chiedevano ai migranti somme in denaro per farli proseguire e tra le violenze, la sete, la fame, le grida e la disperazione raggiunse la Libia, luogo dal quale sarebbe salpato per toccare le coste di quel mondo così diverso dal suo. Era conoscenza di molte storie che riguardavano l’Europa.
Dopo qualche settimana trascorsa in un caldissimo container, Zebra venne a sapere che un gommone avrebbe lasciato le coste della Libia quella sera e decise che si sarebbe imbarcato. Approfittando del buio e della confusione salì a bordo senza farsi notare e preso il largo tirò un sospiro di sollievo. Il viaggio durò qualche giorno: a Zebrin parvero mesi. Appena giunsero in vista della costa i migranti cominciarono ad avvertire degli scossoni, il cielo si fece scuro e grandi onde cominciarono a sballottare l’imbarcazione; in preda al panico i viaggiatori si guardarono l’un l’altro, finché l’acqua cominciò ad entrare nel gommone e con la paura negli occhi alcuni provarono a frenare il flusso che stava appesantendo l’imbarcazione. Non c’era più nulla da fare, il gommone stava per colare a picco e le speranze di Zebra erano riposte nelle navi costiere italiane; all’improvviso un’onda più grande delle altre sommerse il barcone e i viaggiatori, nonostante cercassero in tutti i modi di sopravvivere, annegarono, ad un passo dalla salvezza.
IL PREZZO DEL PASSATO
Un giorno, tornato da scuola mentre eravamo a tavola, la mamma mi riferì che per Natale, quest’anno, sarebbe venuto a trovarci un lontano zio che io e mio fratello Paul non abbiamo mai visto perché abita dall'altra parte degli Stati Uniti, in California.
La mamma mi mostrò poi una fotografia di quando loro erano giovani… Lo zio sembrava un bell’uomo dal viso simpatico e sorridente e assomigliava un po’ anche a mio padre.
Passò qualche settimana e Natale si avvicinava sempre più. Si sentiva odore di festa e allegria nell'aria pungente dell’ inverno.
Nevicò e giocammo a palle di neve con gli amici del quartiere; una delle cose più belle per noi.
Il giorno di Natale arrivarono tutti gli invitati, compreso lo zio, che era diverso dalla foto, più vecchio e consumato, con un’espressione segnata e occhi spenti; aveva una cicatrice lunga più di un centimetro all'angolo esterno dell’occhio destro…
La mamma ce lo presentò, lui sorrise a mala pena. Arrivò poi papà che lo abbracciò intensamente; dopo l’accoglienza degli ospiti mi ritrovai solo con mamma e le chiesi perché lo zio fosse così strano.
Lei mi disse, sforzandosi di trovare le parole giuste, che lo zio era andato in Vietnam a combattere trent’anni prima ed era stato terribile per tutti quelli che erano partiti. Di tutti questi tornarono solo in pochi e fecero fatica a reintegrarsi nella società, come in tutte le guerre.
Lo zio non parlava mai. Durante tutto il giorno, guardando quell'uomo, pensai a quanto una guerra decisa da pochi potesse cambiare e rovinare persone, famiglie e luoghi. A volte la guerra rovina le persone, ma nella maggioranza dei casi, non le fa tornare neanche a casa per riabbracciare le proprie famiglie…
Un giorno, tornato da scuola mentre eravamo a tavola, la mamma mi riferì che per Natale, quest’anno, sarebbe venuto a trovarci un lontano zio che io e mio fratello Paul non abbiamo mai visto perché abita dall'altra parte degli Stati Uniti, in California.
La mamma mi mostrò poi una fotografia di quando loro erano giovani… Lo zio sembrava un bell’uomo dal viso simpatico e sorridente e assomigliava un po’ anche a mio padre.
Passò qualche settimana e Natale si avvicinava sempre più. Si sentiva odore di festa e allegria nell'aria pungente dell’ inverno.
Nevicò e giocammo a palle di neve con gli amici del quartiere; una delle cose più belle per noi.
Il giorno di Natale arrivarono tutti gli invitati, compreso lo zio, che era diverso dalla foto, più vecchio e consumato, con un’espressione segnata e occhi spenti; aveva una cicatrice lunga più di un centimetro all'angolo esterno dell’occhio destro…
La mamma ce lo presentò, lui sorrise a mala pena. Arrivò poi papà che lo abbracciò intensamente; dopo l’accoglienza degli ospiti mi ritrovai solo con mamma e le chiesi perché lo zio fosse così strano.
Lei mi disse, sforzandosi di trovare le parole giuste, che lo zio era andato in Vietnam a combattere trent’anni prima ed era stato terribile per tutti quelli che erano partiti. Di tutti questi tornarono solo in pochi e fecero fatica a reintegrarsi nella società, come in tutte le guerre.
Lo zio non parlava mai. Durante tutto il giorno, guardando quell'uomo, pensai a quanto una guerra decisa da pochi potesse cambiare e rovinare persone, famiglie e luoghi. A volte la guerra rovina le persone, ma nella maggioranza dei casi, non le fa tornare neanche a casa per riabbracciare le proprie famiglie…
VITA IN GATTABUIA
Il forte brusio mi sveglia e capisco che un altro giorno è iniziato. Allora mi preparo: mi sgranchisco le zampe, sistemo il pelo e mi avvicino al dirupo.
Ieri un mio amico è riuscito ad evadere e, sinceramente, sono molto invidioso. La prigione ha appena aperto e moltissimi grandi con i loro cuccioli sfrecciano tra i vari settori. La signora con la voce metallica dà il benvenuto a tutti e augura buona spesa.
Un cucciolo di ferma davanti a me e mi studia attentamente. Mi fissa con aria interrogativa. Spero con tutto me stesso che mi faccia evadere. Anche io lo guardo: ha i capelli ricci e biondi che gli coprono gli occhi verdi. Indossa una maglietta a righe e dei pantaloncini azzurri.
Ad un tratto mi afferra e mi lascia cadere nel cestino metallico. Questo bolide è freddo e poco confortevole, ma se è la condizione per uscire, non mi lamento.
Il grande e il cucciolo spingono il cestino per tutti i settori della prigione, afferrando alcuni dei miei amici di prigionia: il signor Vino, serio come sempre, le gemelle Pizzette, amate da tutti e anche lo strano Emilio Astice, poco amichevole e molto lunatico.
Il grande cestino si riempie a poco a poco e dalle ruvide sbarre metalliche mi godo il viaggio verso la libertà.
Mi rendo conto di essere nel settore panetteria, quando l’inconfondibile profumo di pane appena sfornato mi riempie i polmoni e copre il terribile odore del piccolo Zola.
Finalmente dopo un’ora abbondante, arriviamo ai controlli di uscita. Ad uno ad uno veniamo passati sul laser e il suono di conferma rallegra me e i miei amici.
Arriva il mio turno.
L’addetta ai controlli mi afferra e mi passa sul laser. Il suono di conferma non tarda ad arrivare.
Il cucciolo mi afferra e m tiene stretto tra le braccia mentre usciamo dalla prigione.
Ha il sorriso stampato sul volto.
Durante il viaggio ripenso alla mia terribile vita in gattabuia. Quando i cuccioli cattivi mi lanciavano in aria e mi lasciavano cadere al suolo. O come quella volta che un cucciolo mi abbandonò nel settore ittico dopo che i grandi l’avevano sgridato. Ma ora sono libero e posso vivere sereno.
Il forte brusio mi sveglia e capisco che un altro giorno è iniziato. Allora mi preparo: mi sgranchisco le zampe, sistemo il pelo e mi avvicino al dirupo.
Ieri un mio amico è riuscito ad evadere e, sinceramente, sono molto invidioso. La prigione ha appena aperto e moltissimi grandi con i loro cuccioli sfrecciano tra i vari settori. La signora con la voce metallica dà il benvenuto a tutti e augura buona spesa.
Un cucciolo di ferma davanti a me e mi studia attentamente. Mi fissa con aria interrogativa. Spero con tutto me stesso che mi faccia evadere. Anche io lo guardo: ha i capelli ricci e biondi che gli coprono gli occhi verdi. Indossa una maglietta a righe e dei pantaloncini azzurri.
Ad un tratto mi afferra e mi lascia cadere nel cestino metallico. Questo bolide è freddo e poco confortevole, ma se è la condizione per uscire, non mi lamento.
Il grande e il cucciolo spingono il cestino per tutti i settori della prigione, afferrando alcuni dei miei amici di prigionia: il signor Vino, serio come sempre, le gemelle Pizzette, amate da tutti e anche lo strano Emilio Astice, poco amichevole e molto lunatico.
Il grande cestino si riempie a poco a poco e dalle ruvide sbarre metalliche mi godo il viaggio verso la libertà.
Mi rendo conto di essere nel settore panetteria, quando l’inconfondibile profumo di pane appena sfornato mi riempie i polmoni e copre il terribile odore del piccolo Zola.
Finalmente dopo un’ora abbondante, arriviamo ai controlli di uscita. Ad uno ad uno veniamo passati sul laser e il suono di conferma rallegra me e i miei amici.
Arriva il mio turno.
L’addetta ai controlli mi afferra e mi passa sul laser. Il suono di conferma non tarda ad arrivare.
Il cucciolo mi afferra e m tiene stretto tra le braccia mentre usciamo dalla prigione.
Ha il sorriso stampato sul volto.
Durante il viaggio ripenso alla mia terribile vita in gattabuia. Quando i cuccioli cattivi mi lanciavano in aria e mi lasciavano cadere al suolo. O come quella volta che un cucciolo mi abbandonò nel settore ittico dopo che i grandi l’avevano sgridato. Ma ora sono libero e posso vivere sereno.
IN UN NIDO DI UN’AQUILA
Aprii gli occhietti e vidi dapprima solo azzurro, poi piano piano, incominciai a intravedere delle macchioline bianche che si muovevano, quasi impercettibilmente, in una vasta distesa azzurra.
Per la prima volta mi eressi sulle zampette.
Mi sentii troppo pesante e caddi, con un rumoroso tonfo, su uno strano involucro bianco dove mi trovavo quando mi svegliai.
Mi rimisi in piedi e cerca di capire dove mi trovassi.
Sotto le mie zampe sentivo qualcosa di morbido; guardai a terra e mi accorsi che stavo calpestando delle pagliuzze laboriosamente intrecciate.
Caddi una seconda volta.
Quando ero intento a rialzarmi sentii un acuto terribile, poi un gran sbattere di ali accompagnato da un forte vento.
Guardai all'insù e vidi una grande testa far capolino dal bordo del nido.
Aveva un grande becco giallo e i suoi occhi marroni mi fissavano bonariamente, quasi sorridendomi.
Entrò nel nido con me.
Capii istintivamente che quella era mia mamma; mi porse dei vermetti che mangiai uno dopo l’altro. Avevano un odore abbastanza sgradevole, ma quando li assaggiai rimasi sorpreso di quanto buoni fossero.
La mamma, che occupava più di metà nido, mi guardò amorevolmente finire il mio cibo; mi fece salire sulla sua groppa dove potei vedere un panorama mozzafiato.
Mi trovavo sull'alto di una vetta: sotto di me c’erano valli, fiumi, casette che mi sembravano dei giocattolini insignificanti.
Calò la notte.
Mi addormentai sotto l’ala sicura di mia madre.
Il calore delle sue piume mi avvolgeva e, molto lontano, mi parve di sentire il verso di un gufo nel silenzio del buio.
Aprii gli occhietti e vidi dapprima solo azzurro, poi piano piano, incominciai a intravedere delle macchioline bianche che si muovevano, quasi impercettibilmente, in una vasta distesa azzurra.
Per la prima volta mi eressi sulle zampette.
Mi sentii troppo pesante e caddi, con un rumoroso tonfo, su uno strano involucro bianco dove mi trovavo quando mi svegliai.
Mi rimisi in piedi e cerca di capire dove mi trovassi.
Sotto le mie zampe sentivo qualcosa di morbido; guardai a terra e mi accorsi che stavo calpestando delle pagliuzze laboriosamente intrecciate.
Caddi una seconda volta.
Quando ero intento a rialzarmi sentii un acuto terribile, poi un gran sbattere di ali accompagnato da un forte vento.
Guardai all'insù e vidi una grande testa far capolino dal bordo del nido.
Aveva un grande becco giallo e i suoi occhi marroni mi fissavano bonariamente, quasi sorridendomi.
Entrò nel nido con me.
Capii istintivamente che quella era mia mamma; mi porse dei vermetti che mangiai uno dopo l’altro. Avevano un odore abbastanza sgradevole, ma quando li assaggiai rimasi sorpreso di quanto buoni fossero.
La mamma, che occupava più di metà nido, mi guardò amorevolmente finire il mio cibo; mi fece salire sulla sua groppa dove potei vedere un panorama mozzafiato.
Mi trovavo sull'alto di una vetta: sotto di me c’erano valli, fiumi, casette che mi sembravano dei giocattolini insignificanti.
Calò la notte.
Mi addormentai sotto l’ala sicura di mia madre.
Il calore delle sue piume mi avvolgeva e, molto lontano, mi parve di sentire il verso di un gufo nel silenzio del buio.
NELLA STIVA DI UN MERCANTE FENICIO
Dopo tanti anni, ricordo ancora molto bene quell'insolito martedì. Quella mattina mi svegliai in un luogo che non era la mia dimora. Ero stanco, affamato e avevo un forte dolore alla testa. Non ricordavo come fossi finito lì, a dire il vero, non ricordavo proprio nulla. Ne dedussi che ero svenuto e che avevo sbattuto violentemente la testa, dimenticandomi addirittura della mia stessa identità. Aprii gli occhi, ma il luogo dove mi trovavo era troppo buio; quindi , dato che la vista non mi aiutava, feci ricorso al tatto. Mi alzai lentamente, per paura di farmi ancora male ed iniziai ad allungare le braccia in qualsiasi direzione affinché riuscissi a trovare qualche punto di riferimento. Non misi molto tempo ad imbattermi nel primo indizio. Era un oggetto di forma rettangolare, più largo che alto; toccando i lati notai che c’erano dei cassetti. Intuii quindi che fosse un mobile. All'interno riuscii a scovare alcuni oggetti, che parevano essere gioielli o collane. Dunque pensai di essere stato rinchiuso in una stanza, ma successivamente udii il rumore di alcune onde farsi sempre più vicino. Inoltre notai che ondeggiavo, non perché le mie gambe fossero stanche, ma perché ero all'interno di una barca, probabilmente nella stiva. Se ero finito in quel luogo oscuro però, capii che da qualche parte c’era una via d’uscita. Iniziai a tastare tutti i lati dell’imbarcazione, poi però non scoprendo nulla, fui preso dallo sconforto e dalla fame, dunque mi addormentai. Quando mi svegliai doveva essere passata qualche ora. Mi rimisi a perlustrare quella prigione di legno e finalmente notai una piccola e sottile scala, appoggiata ad un palo. Preso dall'euforia mi arrampicai velocemente e tentai di aprire quella che pareva essere una botola. Riuscii semplicemente a far penetrare un leggero e fievole spiraglio di luce che però ai miei occhi sembrava intenso. Non riuscendo a fuggire da quel luogo, presi un piccolo bastone e lo infilai nella fessura ove passava un leggero spiraglio di luce, cosicché potessi cercare nella stiva oggetti per progettare la fuga. Ormai convinto di essere arrivato alla fine di questa tremenda avventura spostai freneticamente qualsiasi cosa inutile ai miei scopi, finché non mi imbattei in uno specchio molto lungo. Osservai il mio aspetto; i miei capelli biondi erano arruffati e pieni di salsedine, avevo gli occhi grandi e verdi il naso aquilino ed i lineamenti del viso tondeggianti. Ero alto e mediamente magro, indossavo una maglietta scolorita e rotta; i pantaloni pure. Mentre ero intento ad osservarmi, la botola venne completamente spalancata da un uomo che con aria stupita mi grido: “Alessandro! Finalmente!”. Quando gli chiesi come fossi finito lì, mi spiegò che la sera precedente mi ero ubriacato ed ero caduto. I miei compagni dopo una lunga ricerca mi trovarono ed io ero finalmente libero.
Dopo tanti anni, ricordo ancora molto bene quell'insolito martedì. Quella mattina mi svegliai in un luogo che non era la mia dimora. Ero stanco, affamato e avevo un forte dolore alla testa. Non ricordavo come fossi finito lì, a dire il vero, non ricordavo proprio nulla. Ne dedussi che ero svenuto e che avevo sbattuto violentemente la testa, dimenticandomi addirittura della mia stessa identità. Aprii gli occhi, ma il luogo dove mi trovavo era troppo buio; quindi , dato che la vista non mi aiutava, feci ricorso al tatto. Mi alzai lentamente, per paura di farmi ancora male ed iniziai ad allungare le braccia in qualsiasi direzione affinché riuscissi a trovare qualche punto di riferimento. Non misi molto tempo ad imbattermi nel primo indizio. Era un oggetto di forma rettangolare, più largo che alto; toccando i lati notai che c’erano dei cassetti. Intuii quindi che fosse un mobile. All'interno riuscii a scovare alcuni oggetti, che parevano essere gioielli o collane. Dunque pensai di essere stato rinchiuso in una stanza, ma successivamente udii il rumore di alcune onde farsi sempre più vicino. Inoltre notai che ondeggiavo, non perché le mie gambe fossero stanche, ma perché ero all'interno di una barca, probabilmente nella stiva. Se ero finito in quel luogo oscuro però, capii che da qualche parte c’era una via d’uscita. Iniziai a tastare tutti i lati dell’imbarcazione, poi però non scoprendo nulla, fui preso dallo sconforto e dalla fame, dunque mi addormentai. Quando mi svegliai doveva essere passata qualche ora. Mi rimisi a perlustrare quella prigione di legno e finalmente notai una piccola e sottile scala, appoggiata ad un palo. Preso dall'euforia mi arrampicai velocemente e tentai di aprire quella che pareva essere una botola. Riuscii semplicemente a far penetrare un leggero e fievole spiraglio di luce che però ai miei occhi sembrava intenso. Non riuscendo a fuggire da quel luogo, presi un piccolo bastone e lo infilai nella fessura ove passava un leggero spiraglio di luce, cosicché potessi cercare nella stiva oggetti per progettare la fuga. Ormai convinto di essere arrivato alla fine di questa tremenda avventura spostai freneticamente qualsiasi cosa inutile ai miei scopi, finché non mi imbattei in uno specchio molto lungo. Osservai il mio aspetto; i miei capelli biondi erano arruffati e pieni di salsedine, avevo gli occhi grandi e verdi il naso aquilino ed i lineamenti del viso tondeggianti. Ero alto e mediamente magro, indossavo una maglietta scolorita e rotta; i pantaloni pure. Mentre ero intento ad osservarmi, la botola venne completamente spalancata da un uomo che con aria stupita mi grido: “Alessandro! Finalmente!”. Quando gli chiesi come fossi finito lì, mi spiegò che la sera precedente mi ero ubriacato ed ero caduto. I miei compagni dopo una lunga ricerca mi trovarono ed io ero finalmente libero.
SULLE RIVE DEL NILO
L’ acqua fredda mi lambiva le caviglie, coprendo i miei piedi di sabbia. Mi chinai e mi sedetti sulle rive del più grande dono che l’Egitto abbia mai avuto: il Nilo. Sotto i raggi lunari appariva un po’ spettrale, un lungo serpente sinuoso, che pareva pronto ad avvolgerti nelle sue spire e a tirarti giù. Ma io sapevo che non era così. Quel corso d’acqua, che tanto aveva fatto per i miei antenati. Li aveva resi un regno vasto, potente e bellissimo. L’Egitto era un dono del Nilo, aveva detto uno studioso molto tempo fa. Non avrebbe potuto avere più ragione. Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare dal ritmico suono delle lievi onde che si infrangevano sulla sabbia. Forse incoraggiati da quel suono tanto familiare, tornarono a galla ricordi che mi parevano vecchi di secoli. Vidi due bambini sulla riva opposta del fiume. È un pomeriggio assolato, afoso, senza una nuvola in cielo. I due bambini stanno giocando, non si curano del caldo. Sono un maschio e una femmina, chiaramente fratelli. Lui è il più grande, ha i capelli molto corti, sandali consumati, gli occhi che paiono due caramelle alla liquirizia, i denti bianchissimi. Lei gli assomiglia molto, solo che ha i lunghi capelli divisi in tante treccine, una tunica scolorita, è scalza. Si vede da lontano che sono molto poveri, vivono di quello che può dare loro il piccolo orto dietro casa, che non è molto. Ma sono felici ugualmente. Si lanciano una palla che ha tutta l’aria di essere fatta di stracci legati con alcuni elastici, ma da lontano sembra quasi robusta. Lui all’improvviso la lancia più in basso, cade nell’acqua e gli schizzi finiscono addosso alla bambina. Lei strilla: l’acqua è fredda, e poi non se l’aspettava. Suo fratello ride, divertito dal broncio della sorellina. Anche lei si fa contagiare dal riso. Non riuscirebbe mai a tenergli il broncio tanto a lungo. Recuperano la palla, prima che la corrente la porti via, e riprendono a giocare. Dopo poco tempo esce una donna da una piccola casa di mattoni. È giovane, dallo sguardo triste. Li chiama entrambi, dicendo che la cena è pronta. È la loro mamma. I due bambini entrano in casa, sempre ridendo. Non sanno che mai più rideranno assieme. Non sanno cos’è la malaria, non sanno che la puntura di una piccola zanzara li dividerà, lasciando la bambina senza più nessuno a cui fare il broncio. Non sanno che nel giro di poche settimane lei perderà suo fratello, la sua famiglia, la sua casa, la sua terra. Intraprenderà un lungo viaggio, attraverserà il Nilo, andrà di villaggio in villaggio e infine per mare, su una grossa barca. E lo farà da sola, con due zii che conosce a malapena, ma che le daranno l’occasione di una nuova vita. Potrà studiare, studierà medicina, infine tornerà lì, nello stesso posto, solo sull’altra riva del fiume. Da lì potrà vedere quello che un tempo era stato il suo piccolo, povero villaggio, ormai ridotto ad un cumulo di macerie. Non lo sanno. Per questo sono felici. L’ingenuità a volte è un dono e la conoscenza una condanna. Ho saputo molte cose dopo quel giorno. Per questo sono qui, scalza come lo ero allora. Sento la sabbia ruvida sotto i piedi, ma non rovente, perché è notte. Una brezza leggera mi scompiglia i capelli, non più raccolti in tante treccine come allora. Adesso sono corti, mi incorniciano il viso, più adulto, del resto sono passati tredici anni. Certo, questi tredici anni forse non mi hanno reso più alta (sono sempre stata minuta), ma di certo hanno spento e lentamente riacceso la luce nei miei occhi color liquirizia, così simili ai suoi da farmi male ogni volta che mi guardo allo specchio. Sento mio zio suonare il clacson dalla strada. Non dovrei stare qui, è pericoloso, ma ho insistito per scendere lo stesso. Dovevo farlo, prima di tornare nella mia nuova casa in Francia. Mi alzo lentamente e il vento mi porta un odore nuovo, non il profumo che mi ha invaso la mente, il cuore e il palato all’inizio, che mi riportava alla memoria il sapore dolcissimo dei datteri che raccoglievo al pomeriggio con mio fratello. È un odore nuovo, estraneo. È l’odore del fumo e del fuoco, che ha consumato il mio villaggio, mattone per mattone. Mi volto di scatto e risalgo fino alla strada asfaltata poco distante. Quel posto non mi appartiene più ormai. ho attraversato il Nilo e l’ho guardato dall’altra riva. Non posso tornare indietro.
L’ acqua fredda mi lambiva le caviglie, coprendo i miei piedi di sabbia. Mi chinai e mi sedetti sulle rive del più grande dono che l’Egitto abbia mai avuto: il Nilo. Sotto i raggi lunari appariva un po’ spettrale, un lungo serpente sinuoso, che pareva pronto ad avvolgerti nelle sue spire e a tirarti giù. Ma io sapevo che non era così. Quel corso d’acqua, che tanto aveva fatto per i miei antenati. Li aveva resi un regno vasto, potente e bellissimo. L’Egitto era un dono del Nilo, aveva detto uno studioso molto tempo fa. Non avrebbe potuto avere più ragione. Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare dal ritmico suono delle lievi onde che si infrangevano sulla sabbia. Forse incoraggiati da quel suono tanto familiare, tornarono a galla ricordi che mi parevano vecchi di secoli. Vidi due bambini sulla riva opposta del fiume. È un pomeriggio assolato, afoso, senza una nuvola in cielo. I due bambini stanno giocando, non si curano del caldo. Sono un maschio e una femmina, chiaramente fratelli. Lui è il più grande, ha i capelli molto corti, sandali consumati, gli occhi che paiono due caramelle alla liquirizia, i denti bianchissimi. Lei gli assomiglia molto, solo che ha i lunghi capelli divisi in tante treccine, una tunica scolorita, è scalza. Si vede da lontano che sono molto poveri, vivono di quello che può dare loro il piccolo orto dietro casa, che non è molto. Ma sono felici ugualmente. Si lanciano una palla che ha tutta l’aria di essere fatta di stracci legati con alcuni elastici, ma da lontano sembra quasi robusta. Lui all’improvviso la lancia più in basso, cade nell’acqua e gli schizzi finiscono addosso alla bambina. Lei strilla: l’acqua è fredda, e poi non se l’aspettava. Suo fratello ride, divertito dal broncio della sorellina. Anche lei si fa contagiare dal riso. Non riuscirebbe mai a tenergli il broncio tanto a lungo. Recuperano la palla, prima che la corrente la porti via, e riprendono a giocare. Dopo poco tempo esce una donna da una piccola casa di mattoni. È giovane, dallo sguardo triste. Li chiama entrambi, dicendo che la cena è pronta. È la loro mamma. I due bambini entrano in casa, sempre ridendo. Non sanno che mai più rideranno assieme. Non sanno cos’è la malaria, non sanno che la puntura di una piccola zanzara li dividerà, lasciando la bambina senza più nessuno a cui fare il broncio. Non sanno che nel giro di poche settimane lei perderà suo fratello, la sua famiglia, la sua casa, la sua terra. Intraprenderà un lungo viaggio, attraverserà il Nilo, andrà di villaggio in villaggio e infine per mare, su una grossa barca. E lo farà da sola, con due zii che conosce a malapena, ma che le daranno l’occasione di una nuova vita. Potrà studiare, studierà medicina, infine tornerà lì, nello stesso posto, solo sull’altra riva del fiume. Da lì potrà vedere quello che un tempo era stato il suo piccolo, povero villaggio, ormai ridotto ad un cumulo di macerie. Non lo sanno. Per questo sono felici. L’ingenuità a volte è un dono e la conoscenza una condanna. Ho saputo molte cose dopo quel giorno. Per questo sono qui, scalza come lo ero allora. Sento la sabbia ruvida sotto i piedi, ma non rovente, perché è notte. Una brezza leggera mi scompiglia i capelli, non più raccolti in tante treccine come allora. Adesso sono corti, mi incorniciano il viso, più adulto, del resto sono passati tredici anni. Certo, questi tredici anni forse non mi hanno reso più alta (sono sempre stata minuta), ma di certo hanno spento e lentamente riacceso la luce nei miei occhi color liquirizia, così simili ai suoi da farmi male ogni volta che mi guardo allo specchio. Sento mio zio suonare il clacson dalla strada. Non dovrei stare qui, è pericoloso, ma ho insistito per scendere lo stesso. Dovevo farlo, prima di tornare nella mia nuova casa in Francia. Mi alzo lentamente e il vento mi porta un odore nuovo, non il profumo che mi ha invaso la mente, il cuore e il palato all’inizio, che mi riportava alla memoria il sapore dolcissimo dei datteri che raccoglievo al pomeriggio con mio fratello. È un odore nuovo, estraneo. È l’odore del fumo e del fuoco, che ha consumato il mio villaggio, mattone per mattone. Mi volto di scatto e risalgo fino alla strada asfaltata poco distante. Quel posto non mi appartiene più ormai. ho attraversato il Nilo e l’ho guardato dall’altra riva. Non posso tornare indietro.
Ecco alcuni testi ispirati a "L'infinito".
ARIA DI PRIMAVERA
In questa calda giornata di inizio primavera in cui il mondo è fermo e in silenzio, tutto tace.
Dal mio piccolo giardino ombreggiato da qualche pianta e qualche albero, si sentono solo i cinguettii degli uccellini primaverili e, se invece di sentire, si ascolta bene, in lontananza le piccole onde del lago si scagliano piano sui sassi della spiaggia. Nell'aria c’è odore di fresco, di quell'aria pulita che fa risollevare con lunghi respiri. Tra i tulipani alti dell’aiuola vola una piccola farfallina bianca e azzurra.
Passo i pomeriggi fuori, seduta sulla sedia bianca a leggere, sul tavolino a fare i compiti o sulla sdraio verde ad ascoltare la musica con le cuffie. Oggi invece mi sono sdraiata sul vecchio e cigolante dondolo. Guardo le colline che circondano il mio piccolo paese, se pur piccole imponenti, intorno c’è qualche ciliegio quasi in fase di fioritura, ma del resto tutti gli alberi sono verdi, di un verde brillante, pieno di speranza, come augurio per una primavera migliore.
Le case risplendono i colori più vivaci, rosso, rosa e giallo, per la luce del sole, che oggi illumina come non mai.
Sdraiata sola in giardino, mi faccio accarezzare anche io dai suoi raggi caldi, che entrano nella pelle, fino alle ossa. Mi faccio accarezzare come una madre fa con il proprio bambino, e poi, mi do una spinta con il piede da terra per dondolarmi come in una culla.
Divento piccola piccola tra il cuscino morbido della seduta del dondolo e, solo dopo aver chiuso gli occhi, sento dalle finestre aperte di casa un suono, una voce, una musica. E’ mia sorella che canta, svegliata anche lei come una violetta in primavera, accompagnata energicamente dalla melodia del suo pianoforte. Canta una vecchia canzone che cantavamo e ballavamo insieme ai miei cugini, da piccoli a casa dei nonni.
Mi ricordo che, ascoltandola, ridevamo, saltavamo e saltavamo ancora, muovevamo i fianchi, le gambe, le mani e dimenando le braccia ballavamo il twist. Quando ogni week-end eravamo insieme era sempre una festa, ed ora tra un impegno e l’altro, facciamo fatica ad incontrarci tutti.
Mi mancano le frequenti rimpatriate di famiglia, le pizzate, le cene e i pranzi, i pomeriggi a giocare e a ridere, e in questo momento, dove bisogna restare a casa, sento un senso di mancanza.
Così, cullata da questo ricordo, dalla voce e dal pianoforte mi addormento, baciata dal sole, abbracciata dalla mia felpa grigia, sotto il cielo azzurro, tra i fiori colorati e quelli che devono ancora sbocciare.
Aria di Primavera.
In questa calda giornata di inizio primavera in cui il mondo è fermo e in silenzio, tutto tace.
Dal mio piccolo giardino ombreggiato da qualche pianta e qualche albero, si sentono solo i cinguettii degli uccellini primaverili e, se invece di sentire, si ascolta bene, in lontananza le piccole onde del lago si scagliano piano sui sassi della spiaggia. Nell'aria c’è odore di fresco, di quell'aria pulita che fa risollevare con lunghi respiri. Tra i tulipani alti dell’aiuola vola una piccola farfallina bianca e azzurra.
Passo i pomeriggi fuori, seduta sulla sedia bianca a leggere, sul tavolino a fare i compiti o sulla sdraio verde ad ascoltare la musica con le cuffie. Oggi invece mi sono sdraiata sul vecchio e cigolante dondolo. Guardo le colline che circondano il mio piccolo paese, se pur piccole imponenti, intorno c’è qualche ciliegio quasi in fase di fioritura, ma del resto tutti gli alberi sono verdi, di un verde brillante, pieno di speranza, come augurio per una primavera migliore.
Le case risplendono i colori più vivaci, rosso, rosa e giallo, per la luce del sole, che oggi illumina come non mai.
Sdraiata sola in giardino, mi faccio accarezzare anche io dai suoi raggi caldi, che entrano nella pelle, fino alle ossa. Mi faccio accarezzare come una madre fa con il proprio bambino, e poi, mi do una spinta con il piede da terra per dondolarmi come in una culla.
Divento piccola piccola tra il cuscino morbido della seduta del dondolo e, solo dopo aver chiuso gli occhi, sento dalle finestre aperte di casa un suono, una voce, una musica. E’ mia sorella che canta, svegliata anche lei come una violetta in primavera, accompagnata energicamente dalla melodia del suo pianoforte. Canta una vecchia canzone che cantavamo e ballavamo insieme ai miei cugini, da piccoli a casa dei nonni.
Mi ricordo che, ascoltandola, ridevamo, saltavamo e saltavamo ancora, muovevamo i fianchi, le gambe, le mani e dimenando le braccia ballavamo il twist. Quando ogni week-end eravamo insieme era sempre una festa, ed ora tra un impegno e l’altro, facciamo fatica ad incontrarci tutti.
Mi mancano le frequenti rimpatriate di famiglia, le pizzate, le cene e i pranzi, i pomeriggi a giocare e a ridere, e in questo momento, dove bisogna restare a casa, sento un senso di mancanza.
Così, cullata da questo ricordo, dalla voce e dal pianoforte mi addormento, baciata dal sole, abbracciata dalla mia felpa grigia, sotto il cielo azzurro, tra i fiori colorati e quelli che devono ancora sbocciare.
Aria di Primavera.
IL RUMORE DEL SILENZIO
Esco sul terrazzo, mi affaccio alla ringhiera. Un venticello fresco mi accarezza la faccia, mentre le acacie ondeggiano placidamente, ritmicamente, e i rami flessuosi mostrano i teneri germogli. Tra le piante s’intravede un’ambulanza, sfreccia rapida sulla strada sottostante. La sirena echeggia nel’aria, come un prolungato grido di sofferenza o d’aiuto. Poi torna il silenzio, più forte di prima, e quel venticello sulla faccia.
In un istante la mia mente si allontana, esplora l’universo dei ricordi, che sanno essere un rifugio e un fastidio. È come immergermi in un sogno, mentre il mondo intorno a me si trasforma. Il venticello e il silenzio ci sono ancora, ma sono diversi. Le case scompaiono, le acacie diventano le cime aguzze delle montagne, il misero prato diventa un pascolo verde e illimitato. E io, da una spianata sassosa, mi guardo intorno. Ma ci sono già stato in questo luogo? Certo, e accanto a me ci sono i miei genitori, con qualche anno in meno.
Sono all'alpe di Siusi, a Ortisei. Devo avere dieci o undici anni, dopo la quarta elementare. Vacanze memorabili, quelle, forse le ultime della mia vera infanzia. In fondo, a quei tempi, era facile essere felice: bastava inseguire nuove curiosità, avere la compagnia dei genitori. Un bambino non sa cosa sia la vera felicità, per cui si sente felice, o sono gli adulti che non lo sanno. Però anche la crescita ha i suoi aspetti positivi, porta nuove consapevolezze, interessi, ideali, addirittura.
Ma appena ripresomi dalla malinconia, uno strano rumore, incompatibile con quel ricordo, mi riporta alla realtà attuale. Già, la realtà: e mi vengono in mente le parole epidemia, contagio, isolamento…Il rumore proviene da un elicottero, ma nel cielo coperto da qualche nuvola non riesco a vederlo. Sarà l’elisoccorso, che porta all'ospedale qualcuno che non riesce a respirare? Oppure è la polizia, che dall'alto controlla che l’isolamento venga rispettato, come hanno detto al telegiornale? Ma questa situazione surreale finirà, deve finire, e si tornerà a guardare il cielo senza più dubbi.
Esco sul terrazzo, mi affaccio alla ringhiera. Un venticello fresco mi accarezza la faccia, mentre le acacie ondeggiano placidamente, ritmicamente, e i rami flessuosi mostrano i teneri germogli. Tra le piante s’intravede un’ambulanza, sfreccia rapida sulla strada sottostante. La sirena echeggia nel’aria, come un prolungato grido di sofferenza o d’aiuto. Poi torna il silenzio, più forte di prima, e quel venticello sulla faccia.
In un istante la mia mente si allontana, esplora l’universo dei ricordi, che sanno essere un rifugio e un fastidio. È come immergermi in un sogno, mentre il mondo intorno a me si trasforma. Il venticello e il silenzio ci sono ancora, ma sono diversi. Le case scompaiono, le acacie diventano le cime aguzze delle montagne, il misero prato diventa un pascolo verde e illimitato. E io, da una spianata sassosa, mi guardo intorno. Ma ci sono già stato in questo luogo? Certo, e accanto a me ci sono i miei genitori, con qualche anno in meno.
Sono all'alpe di Siusi, a Ortisei. Devo avere dieci o undici anni, dopo la quarta elementare. Vacanze memorabili, quelle, forse le ultime della mia vera infanzia. In fondo, a quei tempi, era facile essere felice: bastava inseguire nuove curiosità, avere la compagnia dei genitori. Un bambino non sa cosa sia la vera felicità, per cui si sente felice, o sono gli adulti che non lo sanno. Però anche la crescita ha i suoi aspetti positivi, porta nuove consapevolezze, interessi, ideali, addirittura.
Ma appena ripresomi dalla malinconia, uno strano rumore, incompatibile con quel ricordo, mi riporta alla realtà attuale. Già, la realtà: e mi vengono in mente le parole epidemia, contagio, isolamento…Il rumore proviene da un elicottero, ma nel cielo coperto da qualche nuvola non riesco a vederlo. Sarà l’elisoccorso, che porta all'ospedale qualcuno che non riesce a respirare? Oppure è la polizia, che dall'alto controlla che l’isolamento venga rispettato, come hanno detto al telegiornale? Ma questa situazione surreale finirà, deve finire, e si tornerà a guardare il cielo senza più dubbi.
IL MIO INFINITO
Sono sul letto
occhi chiusi,la mano mi fa male.
Ho tirato un pugno sul muro,il solito litigio,
ennesima battaglia di una guerra casalinga.Decido di sbollire
con lo strumento più depurativo che ho:la musica.
Infilo le cuffiette,cavi che mi slanciano nell'universo ritmico
in cui perdo coscienza e memoria.
Ricado nel letto,dove il mio corpo rimane,ma
la mia mente si estranea.
Scivola via,fluttua,si deforma,si colora,come
una nuvola.La prima canzone inizia
aduepassipassidallaconcezionediuomoliberiscivolo...
Mi succede qualcosa
Male
Al cuore
Al corpo
Alla testa
All'anima
Anni
Che
Non
Ascoltavo questa canzone
L'avevo dimenticata,cestinata,relegata.Una canzone che ascoltavo,che ricorda il tempo in
cui mi capivo,in cui la casa non era un campo di battaglia,le parole non erano
pallottole e le camere trincee.
Più vai avanti e più vuoi tutto indietro.
LORIVOGLIO
Voglio quel me felice,con il nido
e la serenità.
Terremoto
Pianto
Sono sul letto
occhi chiusi,la mano mi fa male.
Ho tirato un pugno sul muro,il solito litigio,
ennesima battaglia di una guerra casalinga.Decido di sbollire
con lo strumento più depurativo che ho:la musica.
Infilo le cuffiette,cavi che mi slanciano nell'universo ritmico
in cui perdo coscienza e memoria.
Ricado nel letto,dove il mio corpo rimane,ma
la mia mente si estranea.
Scivola via,fluttua,si deforma,si colora,come
una nuvola.La prima canzone inizia
aduepassipassidallaconcezionediuomoliberiscivolo...
Mi succede qualcosa
Male
Al cuore
Al corpo
Alla testa
All'anima
Anni
Che
Non
Ascoltavo questa canzone
L'avevo dimenticata,cestinata,relegata.Una canzone che ascoltavo,che ricorda il tempo in
cui mi capivo,in cui la casa non era un campo di battaglia,le parole non erano
pallottole e le camere trincee.
Più vai avanti e più vuoi tutto indietro.
LORIVOGLIO
Voglio quel me felice,con il nido
e la serenità.
Terremoto
Pianto
IL SUONO
Il mio angolo tranquillo dove poter riflettere non è, come per molti altri la propria camera da letto o luoghi simili, ma il mio giardino. Anche se non è molto grande e non ha una vista da cartolina, va bene lo stesso, soprattutto in questo periodo di clausura forzata; il prato volge verso la chiesa di Inarzo, il mio piccolo paese, che non scambierei mai per nessuna città. Dal nostro giardino si possono vedere i tramonti verso la catena del Monte Rosa. A poche decine di metri dalla via di casa mia inoltre, si trova la Palude Brabbia, in cui vado da quando ero bambino a camminare, almeno fino a prima dell’epidemia...
Qualche giorno fa ero a fare i compiti fuori sul tavolo verso il calar del sole, quando ho sentito un suono a me familiare, un misto tra ruvido e secco insieme a dolce e delicato, quasi armonioso: il frinire di un grillo.
Improvvisamente una valanga di pensieri e ricordi mi affollano la mente distogliendo il pensiero dai compiti. Sono principalmente legati all'estate, che sinceramente un po’ mi manca; comincio allora a perdermi nei miei pensieri, volando da una memoria all’altra, come le numerose sere passate a guardare il cielo, i tramonti, le feste estive con gli amici e le vacanze al mare con la famiglia.
Mi riaffiorano alla mente il profumo dell’erba dopo la fine della scuola, i pomeriggi trascorsi al campetto a giocare a pallacanestro con i miei compagni di squadra, o anche i bagni in piscina dal mio amico Tommy o al lago di Monate. Questo suono reca con sé pensieri felici, ma ha anche un retrogusto tratti amaro e triste, anche se non ne so bene il motivo. Ma dopo un tempo imprecisato, in cui ho in parte rivissuto il passato, mio padre mi riporta sulla Terra con un richiamo... Ed eccomi di nuovo al tavolo davanti a quel modesto paesaggio, con un’atmosfera primaverile nell’aria: qualche canto di uccellino qua e là, una gazza, una farfallina gialla, un nibbio che compie lunghe spirali per salire in cielo, una piacevole brezza fresca e tutt’intorno alberi verdi e fioriti.
Il mio angolo tranquillo dove poter riflettere non è, come per molti altri la propria camera da letto o luoghi simili, ma il mio giardino. Anche se non è molto grande e non ha una vista da cartolina, va bene lo stesso, soprattutto in questo periodo di clausura forzata; il prato volge verso la chiesa di Inarzo, il mio piccolo paese, che non scambierei mai per nessuna città. Dal nostro giardino si possono vedere i tramonti verso la catena del Monte Rosa. A poche decine di metri dalla via di casa mia inoltre, si trova la Palude Brabbia, in cui vado da quando ero bambino a camminare, almeno fino a prima dell’epidemia...
Qualche giorno fa ero a fare i compiti fuori sul tavolo verso il calar del sole, quando ho sentito un suono a me familiare, un misto tra ruvido e secco insieme a dolce e delicato, quasi armonioso: il frinire di un grillo.
Improvvisamente una valanga di pensieri e ricordi mi affollano la mente distogliendo il pensiero dai compiti. Sono principalmente legati all'estate, che sinceramente un po’ mi manca; comincio allora a perdermi nei miei pensieri, volando da una memoria all’altra, come le numerose sere passate a guardare il cielo, i tramonti, le feste estive con gli amici e le vacanze al mare con la famiglia.
Mi riaffiorano alla mente il profumo dell’erba dopo la fine della scuola, i pomeriggi trascorsi al campetto a giocare a pallacanestro con i miei compagni di squadra, o anche i bagni in piscina dal mio amico Tommy o al lago di Monate. Questo suono reca con sé pensieri felici, ma ha anche un retrogusto tratti amaro e triste, anche se non ne so bene il motivo. Ma dopo un tempo imprecisato, in cui ho in parte rivissuto il passato, mio padre mi riporta sulla Terra con un richiamo... Ed eccomi di nuovo al tavolo davanti a quel modesto paesaggio, con un’atmosfera primaverile nell’aria: qualche canto di uccellino qua e là, una gazza, una farfallina gialla, un nibbio che compie lunghe spirali per salire in cielo, una piacevole brezza fresca e tutt’intorno alberi verdi e fioriti.
SOPRAVVIVERE DI RICORDI
Difficile non pensare.
Intere giornate vuote da riempire, ore buche senza risposte.
E allora i pensieri non possono che correre, rincorrersi senza fiato, senza fine.
La testa perennemente sulle nuvole, alla ricerca di un mondo immaginario nella speranza che diventi reale.
Basta un minimo rumore, una piccola folata di vento, a risvegliare il passato.
Perché, in questo momento di solitudine, si sopravvive di ricordi.
Si sopravvive immaginando la sensazione di un abbraccio, il suono di una risata, perfino il tintinnare imperterrito della campanella della scuola tra un’ora e l’altra.
E, anche quando ci si sente estremamente soli, le emozioni trionfano.
Prima di questa metaforica prigione, non pensavo che mi sarebbe pesata così tanto.
Che avrei sentito così tanto la mancanza del mondo esterno e, soprattutto, delle persone.
Mi manca ogni singolo momento, ogni singolo secondo.
Vorrei soltanto tornare indietro e rivivere tutto quanto, riassaporare ogni singolo attimo di felicità sapendo che poi non potrò riviverlo per molto tempo.
Vorrei soltanto aver saputo vivere meglio, non sprecare neanche un attimo.
Vorrei tornare a perdermi in un abbraccio, ad avere il mal di pancia e le lacrime agli occhi a causa delle risate, perfino a sentire i professori che mi rimproverano per il mio continuo e fastidioso chiacchierare.
Mi manca la mia vita, spazzata via senza preavviso da una folata di vento, forse dalla stessa folata di vento che mi ha portato a pensare a tutto questo.
Difficile non pensare.
Intere giornate vuote da riempire, ore buche senza risposte.
E allora i pensieri non possono che correre, rincorrersi senza fiato, senza fine.
La testa perennemente sulle nuvole, alla ricerca di un mondo immaginario nella speranza che diventi reale.
Basta un minimo rumore, una piccola folata di vento, a risvegliare il passato.
Perché, in questo momento di solitudine, si sopravvive di ricordi.
Si sopravvive immaginando la sensazione di un abbraccio, il suono di una risata, perfino il tintinnare imperterrito della campanella della scuola tra un’ora e l’altra.
E, anche quando ci si sente estremamente soli, le emozioni trionfano.
Prima di questa metaforica prigione, non pensavo che mi sarebbe pesata così tanto.
Che avrei sentito così tanto la mancanza del mondo esterno e, soprattutto, delle persone.
Mi manca ogni singolo momento, ogni singolo secondo.
Vorrei soltanto tornare indietro e rivivere tutto quanto, riassaporare ogni singolo attimo di felicità sapendo che poi non potrò riviverlo per molto tempo.
Vorrei soltanto aver saputo vivere meglio, non sprecare neanche un attimo.
Vorrei tornare a perdermi in un abbraccio, ad avere il mal di pancia e le lacrime agli occhi a causa delle risate, perfino a sentire i professori che mi rimproverano per il mio continuo e fastidioso chiacchierare.
Mi manca la mia vita, spazzata via senza preavviso da una folata di vento, forse dalla stessa folata di vento che mi ha portato a pensare a tutto questo.